mercoledì 11 giugno 2014

Fuga in casa mia

Siamo soli, morenti, la speme è ghiacciata;
sopravvivere, cercare coraggio nelle tasche 
per non perdere fiato, 
tra la amara voragine dell'abbandono.
Sbircio il cielo sempre uguale, senza nubi,
non mi alzo perchè non porta nessuna novità,
ma accendo l'ultimo cero,
spargo le poche cose rimaste per cibarmi e con la sigaretta lenta,
perdo saliva e aspirazioni epiche di una volta,
mi sfioro il ventre troppo dolente
supplicando me stessa che sopraggiunga, prima o poi,
il menarca della salvezza.
E sono sbarre, queste mie ossa che ostacolano la fuga,
ragnatele, questi miei pianti che ostacolano l’oblio
del mio malessere, sublime voce pulsa in aria,
nell’idea statica di questa assenza,
muta come un insetto che ha fame
in un fiore rosso come le labbra che non assaporo più.
Vedo solo altre facce, altre bocche,
e le loro espressioni tendono il vissuto sulla strada di tutti
la quale, a sua volta, lancia all'interno un mesto chiacchiericcio
con l'ausilio delle luci del vecchio borgo.
Ma tra il pino e la steppa della brughiera,
il tetto è il mio scudo,
protegge l’esistenza del legionario quieto vivere.
Ecco, il vento ulula tra le fessure, lo sento.
Io sento un lamento con soffi di grappa
che emana torpore nell’eco del vento.
La pioggia batte le sue percussioni sulle tegole,
sono chiusa dentro e il tetto è il mio lucchetto.
Un pensiero unito al centro della camera ermetica,
dove i cuori parlano seduti a tavola,
tra un pezzo di pane e un goccio di vino benedetti,
sembra ripercuotersi fuori, tra gli angoli aperti come ferite,
tra i monti bianchi e vecchi come barbe incolte senza più carezze,
come l'illusione vana del tempo che mangia assieme a me il tuo ritorno.

Immagine dal web: Johann S. Bach: Die Kunst der Fuge – Keller Quartett (ECM New Series 1652)

Matilde Marcuzzo ©

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